Rassegna stampa
Pallotta, una “cura” per la Roma
NOTIZIE AS ROMA PALLOTTA – Un giorno forse, quando arriveranno tempi più sereni, proprio la vicenda della trattativa con Dan Friedkin potrebbe essere la cartina di tornasole per giudicare con più lucidità l’era di James Pallotta, che oggi compirà 62 anni.
Intendiamoci, non ci sono buoni e cattivi. Ci sono imprenditori con stili diversi e con diversa sensibilità al sopraggiungere della quotidianità. Certo, il presidente della Roma è rimasto sorpreso di come il passaggio di proprietà con il magnate texano (ma di origine californiana) si sia incagliato, ma chi li conosce sa che i due uomini – che pure si stimano – sono profondamente diversi. Più istintivo (e, dicono, geniale) il bostoniano, più analitico (e, dicono, pragmatico) lo houstoniano.
Certo, difficile criticare la posizione di Friedkin che, ad un passo dall’acquistare un club per circa 700 milioni, vede passare la squadra dalle porte chiuse alla sospensione nazionale fino alle difficoltà internazionali, tutto questo mentre l’Europa intorno «brucia» e gli affari non sono floridi neppure in patria per via del coronavirus.
Lo stallo è quindi comprensibile, anche perché la società sta quantificando perdite importanti e le prospettive sono incerte. Così le parti stanno valutando anche un Piano B, che consisterebbe l’ingresso sì di Friedkin, ma come partner si riferimento, con un diritto di prelazione all’acquisizione del pacchetto di maggioranza, qualora tra qualche mese la situazione torni alla normalità.
Lo scoglio però è il solito: il valore dato alla quota, che per Friedkin non può più essere quello del dicembre scorso, nonostante l’uomo della Toyota negli Usa abbia dato atto al management – come del resto ha fatto Pallotta e il suo patto di sindacato (una trentina di soci) – di saper gestire la barca in mezzo alla tempesta.
La trattativa, quindi, non è archiviata, ma legittimamente Pallotta comincia a guardarsi intorno per vedere se all’orizzonte si presentassero altre possibilità – ed in questo momento è difficile – o se riuscisse a trovare nuovi soci (tramite Golgman Sachs) con cui sostituire quelli del suo gruppo (a partire da Starwood) che vogliono uscire il prima possibile.
Tutto questo, sempre in attesa che il lavoro con Friedkin sui due piani (A e B) non porti frutti. Non dimentichiamo che il primo contatto con il magnate di stanza a Houston il presidente lo ebbe circa due anni, quando gli propose di entrare nell’azionariato, sentendosi rispondere: per il momento no.
In ogni caso, Pallotta – che ha versato 50 mila euro allo Spallanzani (più 50 mila da Roma Cares)- non lascerà il club allo scoperto, così – viste le nuove esigenze (dal mercato di gennaio con sole entrate e niente uscite, ai mancati introiti al botteghino), entro giugno completerà in due tranche l’aumento di capitale con altri 60 milioni circa, tenendo conto che negli ultimi tre mesi ne ha già versati (compresa la conversione di crediti) altri 89.
Insomma, è vero: la Roma in 9 anni nulla ha vinto, anche perché le scelte dei manager non sono state sempre impeccabili, ma dal 2011 a oggi la proprietà ha iniettato nel club circa 300 milioni, dopo aver prelevato una società zavorrata da un debito di oltre duecento. Intendiamoci, anche se forse sarebbe stata più conveniente una scelta stile Napoli (fallimento e poi risalita) per liberarsi del pregresso, sappiamo che nel calcio nessuno fa filantropia.
Quello che però ha creato corto circuito con la piazza è stata davvero una cosa sola: per far uscire la Roma da una dimensione locale la proprietà ha scelto la strada di non avere eroi – e da le plusvalenze e le bandiere ammainate – mentre una tifoseria che credeva di cominciare a vincere, si è ritrovata sì una società cresciuta, ma priva di quei simboli che per anni hanno giustificato la passione. Da qui il nodo: meglio poveri ma con ardore o benestanti ma senza cuore? Toccherà a Friedkin – o a chi per lui – provare a trovare la soluzione.
(Gazzetta dello Sport)
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