La Juventus ha praticamente vinto lo scudetto anche quest’anno, d’altra parte era scritto. Ma scritto dove? Nei pizzini dati agli arbitri che la favoriscono? No, questo lo dicono gli ultras avversari. Forse scritto negli astri? Macché. Allora dove? Era scritto in bilancio. In genere, siamo soliti guardare i bilanci di società industriali o terziare perché ne siamo azionisti o perché siamo comunque coinvolti nella loro attività aziendale come clienti, utenti, lavoratori, fornitori, creditori, abitanti dei comuni dove sono insediate le fabbriche. In genere, poi, tifiamo per una o un’altra squadra di calcio, ci sentiamo tutti direttori tecnici più competenti dell’allenatore, ma non ne analizziamo la realtà patrimoniale, economica e finanziaria. Eppure, se letta bene, quella rivelerebbe così tante cose che potremmo vincere scommesse e dar lezioni ai bookmaker.
Il bilancio di una società di calcio, d’altronde, non differisce quasi per nulla da quello di un’impresa generica. L’unica differenza sta nel fatto che gli utili conseguiti con il prestito e la cessione dei calciatori (“proventi della cessione temporanea dei calciatori e plusvalenze della cessione dei diritti di prestazione dei calciatori”) vengono appostati nella gestione operativa e non in quella straordinaria, come invece dovrebbero. Mi spiego. Un’impresa opera con le fabbriche perché il suo scopo è fare prodotti dalla cui vendita introita ricavi e da questi nascono redditi: questa è la sua gestione operativa. Le può capitare sì di disinvestire, cioè di dismettere, cedere qualche macchinario, ma si tratta di un’eccezione, e infatti il risultato economico della tal cessione (utile o perdita su disinvestimento) non sta nella sezione del conto economico chiamata gestione operativa, sta piuttosto nella gestione straordinaria.
Nelle squadre di calcio, dove i ricavi vengono dalla vendita di biglietti, abbonamenti e diritti tv, i mezzi di produzione sono rappresentati dai diritti sulla prestazione dei calciatori, i quali stanno infatti nelle immobilizzazioni immateriali, all’attivo della situazione patrimoniale. Ebbene accade che questi diritti vengano venduti e comprati tanto di frequente che l’utile o la perdita che ne risulta entri in conto economico nella gestione operativa, non in quella straordinaria, manco le squadre avessero per scopo principale quello di vendere i propri calciatori. 0 forse è proprio così? Forse perché i ricavi ordinari sono tanto esigui che le società nel calciomercato devono integrarli per forza con gli utili provenienti dalla vendita di quei calciatori che in campionato siano stati valorizzati di più, di quelli cioè il cui valore corrente di mercato sia aumentato di più rispetto all’importo netto scritto in bilancio. In altre parole, quando un campione beniamino delle curve segna un gol, i tifosi invece di esultare dovrebbero disperarsi, perché la società lo venderà subito, al primo calciomercato. Questa amara conclusione uccide il calcio.
Juventus e Roma non solo occupano i primi posti della classifica della serie A, sono anche società quotate in Borsa e fanno i bilanci più chiari (fonte Res-Mediobanca). Un esame comparato del bilancio al 30 giugno 2016 della Juventus Fc e del gruppo As Roma, con l’impiego di criteri di elaborazione e interpretazione da me collaudati, fa capire un sacco di cose, generalizzabili a Napoli, Lazio, Milan, Inter, eccetera. Innanzitutto, con i ricavi che vengono dalle gare, la Roma (52 milioni) ha scavalcato la Juve (44 milioni), che però si rifà abbondantemente con la cessione di diritti televisivi e Uefa (partecipazione alla Champions League). Entrambe le società incassano a meno di un mese, la Juve a tre settimane, la Roma a quattro. Sul lato opposto, la dilazione nel pagamento dei debiti verso fornitori, terzi ed enti del settore, è impressionante: la Juve paga a un anno, la Roma a due anni e mezzo. Il ritardo della Juve è indizio di una posizione dominante, un potere contrattuale feroce, quello della Roma è un campanello di allarme di tensioni di liquidità. Il capitale investito nel parco calciatori è praticamente identico: 186 milioni la Juve, 193 la Roma. La differenza sta nelle immobilizzazioni materiali, perché la Juve ha lo stadio (103 milioni) e la Roma no.
In entrambi i casi, il magazzino è trascurabile (più o meno un milione). L’organico è identico, 304 dipendenti alla Juve, 311 alla Roma. Nel monte stipendi calciatori (rotti e compagni), la Roma ha speso 138 milioni, cifra identica a quella della Juve nel 2015 e inferiore per una ventina di milioni a quella del 2016 (Buffon e gli altri). Una differenza che pesa è costituita dagli impegni vincolanti e restrittivi che la Roma ha dovuto sottoscrivere in un accordo transattivo (Settlement Agreement) con l’Ufficio Indagine dell’Uefa (Club Financial Control Body) per dimensionare, lungo un percorso concordato fino al 2018, il numero di nuovi giocatori da inserire nelle coppe europee in funzione dei risultati sportivi (aleatori) via via raggiunti. Ma la differenza più importante, che poteva far scommettere sullo scudetto alla Juve, al di là dello stadio di proprietà, a mio avviso è un’altra. Al 30 giugno 2016 il patrimonio netto della Juventus era pari a 53 milioni, quello della Roma era negativo e pari a meno 117 milioni. Per comprendere bene cosa significhi questo dato, dobbiamo chiarire il concetto di patrimonio netto. In generale, si tratta del capitale che gli azionisti hanno rischiato nell’impresa, è la somma di capitale sociale, riserve e risultato economico netto dell’ultimo esercizio. E’ la misura di quanto un imprenditore crede nella sua impresa, non essendo assolutamente possibile che egli dica di crederci e non rischi capitale perché, se fa così, vuol dire che non è un imprenditore.
Un’altra cosa importante è l’incidenza percentuale tra il patrimonio netto e il totale delle attività. Nel caso della Juve, nell’ultimo bilancio questo rapporto era pari al 9 per cento, cioè le attività erano finanziate a debito per il 91 per cento e con capitale di rischio per il 9 per cento, molto poco se si pensa che nella media delle imprese industriali era pari al 38 per cento (62 per cento a debito). Ma il 9 per cento era pur sempre positivo. Nel caso della Roma, la differenza a saldo tra il totale delle attività (344 milioni) e il totale delle passività (461 milioni) era negativo e rappresentava appunto il patrimonio netto di meno 117 milioni. Tutto ciò nonostante che la Roma nell’esercizio chiuso al 30 giugno 2016 fosse stata costretta a prestare e vendere alcuni dei calciatori più valorizzati e avesse conseguito utili per 84 milioni (77,5 milioni da dismissione e 6,5 da cessione temporanea), il doppio esatto dell’anno prima (41 milioni), e quasi il doppio di quanto necessario alla Juve (44 milioni). Socio di controllo della Juventus è la Exor, nata nel 2009 dalla Ifi e oggi controllata dalla Giovanni Agnelli e co. Nel 2002, il gruppo Fiat raggiunse l’acme della crisi economica con una perdita netta di quasi 5 miliardi di euro, chiese aiuto al governo e fu costretta a vendere qualche gioiello di famiglia (Toro Assicurazioni a De Agostini nel 2003). In quel momento ero consigliere del ministro delle Attività produttive e partecipai ai lavori per la soluzione della crisi. Con alcuni consiglieri di altri ministri, romani e romanisti, ipotizzammo di introdurre la condizione che gli azionisti cedessero anche la quota azionaria di controllo della Juventus. Lo pensammo solo come battuta per ridere, ovviamente, ma dal profondo del nostro cuore. L’illusione che la famiglia Agnelli stesse per cedere la partecipazione nella Juventus l’ha forse coltivata anche chi, osservando il forte recupero registrato dal titolo in Borsa in questi ultimi giorni (più 5 per cento in poche ore), l’ha spiegato con voci di una scalata in atto da parte di qualche investitore asiatico. Tutto sbagliato, perché il titolo si è impennato nella mattinata dell’8 marzo, verso le ore 12, all’indomani dell’eliminazione del Napoli dalla Champions League, cioè quando è stato reso noto l’incremento di contributo Uefa entrante nel conto economico della Juve appunto per l’eliminazione della squadra partenopea. D’altronde, uno dei fattori principali del successo dei campioni d’Italia deriva proprio dall’indebolimento di Roma e Napoli. Non a caso, com’è ben noto, la Juventus compra da queste due squadre i loro calciatori più forti e valorizzati (rispettivamente Pjanic e Higuain), quelli la cui vendita nel 2015-16 ha portato gli utili da disinvestimento (28,3 milioni nel caso di Pjanic, poco più di un terzo delle plusvalenze totali contabilizzate dalla Roma, pari a 77,5 milioni) necessari a contenere la perdita netta di esercizio (14 milioni per la Roma, che altrimenti senza la vendita di Pjanic sarebbe stata pari al triplo) e la conseguente erosione del capitale netto di Roma e Napoli. Non è un caso che Pallotta faccia di tutto per mantenere buoni rapporti con la famiglia Agnelli.
Poiché la situazione è questa e di certo non migliorerà, ne consegue che — a parità di ogni altra condizione — il processo continuerà e il divario economico, finanziario, patrimoniale, quindi di risultati calcistici, aumenterà. Oggi, fossi stato al posto della Raggi, pur essendo io tifosissimo della Roma, avrei detto: “Caro Pallotta, la riceverò e studierò il progetto dello stadio, indispensabile per il futuro della Roma, non appena lei avrà dimostrato di credere nel suo gruppo, dopo che avrà messo capitale di rischio in una misura quanto meno allineata a quel misero 9 per cento della Juve, che nel suo caso significa un aumento di capitale pari a 150 milioni, insomma quando lei avrà dimostrato di essere il proprietario della Roma”.
Per la verità, nei giorni scorsi è stata approvata la relazione finanziaria semestrale al 31 dicembre 2016 del gruppo As Roma. Vi si legge che sono state portate a nuovo un po’ di perdite e il patrimonio netto a fine anno è passato da meno 117 a meno 100 milioni. La correzione dunque è stata pari a 17 milioni invece dei 150 da me stimati, ed è stata dovuta per legge (assicurare “adeguato supporto finanziario per far fronte ai fabbisogni derivanti dalla gestione al fine di garantire la continuità aziendale”). A questa posizione della Raggi, fossi stato io al posto di Pallotta, avrei risposto: “Cara Sindaca, io verrò e studierò il progetto dello stadio, quando lei avrà dimostrato di essere istituzionalmente e decisoriamente autonoma dal M5s nelle cui fila è stata eletta, insomma quando avrà dimostrato di essere il sindaco di Roma”. Inoltre al posto di Pallotta avrei risposto a me stesso e a tutti i sedicenti tifosi della Roma: “Miei cari tifosi, sono costretto a vendere giocatori per integrare i ricavi e questo perché voi non fate ancora abbonamenti e biglietti in misura necessaria a colmare la mancanza dei proventi della Champions, cioè perché voi non gettate il cuore oltre l’ostacolo, non venite allo stadio, vi definite tifosi solo a chiacchiere, ma non lo siete davvero, perché l’unica vera misura del tifo calcistico è comprare biglietti e abbonamenti, non disertare gli spalti”. Infine, al posto dei tifosi avrei detto: “Caro Presidente, queste cose non le deve dire a noi, semmai le dica al ministero degli Interni, cioè al Palazzo in cui la Juve è di casa”. In questa situazione un po’ pirandelliana, nella trattativa tra un sindaco incompiuto e un proprietario incompiuto, è stato varato un progetto incompiuto per tifosi incompiuti. Il bandolo della matassa, da cui partire, più che di natura urbanistica, ambientale, partitica, affaristica, calcistica, a me sembra sia imprenditorial-patrimonial-finanziario.
(Il Foglio – R. Gallo)
FOTO: Credits by Shutterstock.com
© RIPRODUZIONE RISERVATA