«Il calcio è matematica», amava sostenere Luigi Delneri nella sua breve esperienza nella capitale. Per questo motivo, «i difensori devono essere alti». E a chi gli chiedeva il perché, l’allenatore friulano replicava: «Ma è chiaro, perché così arrivano primi sul pallone». Se scherzasse o meno si è sempre capito poco. Forse perché nel suo modo di parlare alla velocità del suono, nel quale si è sempre mangiato qualche parola di troppo, si nasconde un mix di imprevedibilità e genialità. Magari a volte incompresa ma tant’è: un allenatore capace di creare il miracolo Chievo non è cosa di tutti i giorni. Otto giornate capolista solitario con i vari Corini, Corradi, Perrotta, D’Angelo e Eriberto. Per poi scoprire, nell’estate del 2002, che «Eriberto non è più Eriberto», accompagnato dalla sua inconfondibile erre moscia che fa sorridere, dopo tanti anni, anche i suoi più stretti collaboratori.

ECCESSI E CUORE D’ORO – Amante dei superlativi («Abbiamo un attacco supersonico»; «Montella è un giocatore fantastico»; «Totti è un campionissimo») e delle frasi ad effetto («Con Ferronetti e Aquilani vinco due scudetti», parole che provocarono una sera a cena la genuflessione di uno dei proprietari del noto ristorante di via dei Genieri a due passi da Trigoria) non ha mai avuto paura di andare contro i senatori dello spogliatoio. Al Porto gli costò la panchina prima di cominciare il campionato. Alla Roma sono memorabili invece alcuni confronti con Panucci quando al suo posto gli preferiva Scurto. Discepolo del 4-4-2, nei primi anni di carriera è stato un dogmatico. E così, durante un Milan-Roma, se le indicazioni pre-gara per Delvecchio erano di non preoccuparsi di Cafu, anche durante la partita, con il brasiliano che nel primo tempo stava demolendo la Roma, le disposizioni non cambiavano: «Non ti preoccupare Marco, continua così». Risultato? Delvecchio sostituito ad inizio ripresa con tanto di motivazione al fischio finale: «L’ho tolto perché stava soffrendo troppo Cafu». A Roma si accompagnava sempre con il suo borsello di pelle a tracolla con le fibbie. Lo aveva anche quando rassegnò le dimissioni: «Mi dimisi a marzo quando ero sesto, mica ultimo – ha ricordato ultimamente in un’intervista – Commisi un errore che oggi non rifarei». Sul piatto lasciò tutto ma pretese che i suoi collaboratori venissero pagati sino al termine della stagione. Domenica ritrova la Roma. Le ha già giocato un brutto scherzo nel 2010, facendole perdere lo scudetto. Ora ci riprova. Spalletti è avvisato.

(Il Messaggero – S. Carina)



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