(La Repubblica – M. Pinci) Prima dell’allenamento, Valverde ha radunato la squadra a centrocampo e parlato a lungo con i calciatori, guardandoli negli occhi. Tre minuti di arringa, per poi chiudere il discorso con un avviso: «Non ragionate su andata e ritorno, giocate come se ci fosse solo questa partita». Curioso dover chiamare all’attenzione una squadra che in campionato non ha mai perso e l’unica competizione in cui ha fallito è la Supercoppa estiva col Real. Ma è il segno della rivoluzione di Ernesto Valverde. L’uomo a cui in estate tolsero Neymar e che qualcuno a Barcellona immaginava come un passante. Poteva essere l’inizio della fine, e invece proprio sull’assenza del brasiliano ha costruito la sua rivoluzione. Questione di numeri: quando ha capito che il mercato non avrebbe potuto offrirgli un’alternativa, ha scelto di non sostituirlo. Ma di stravolgere la squadra. Un nuovo modulo, il meno “catalano”: quel 4-4-2 che in Europa vuol dire “primo non prenderle”. Un modulo dimenticato in qualche soffitta da una ventina d’anni, dopo aver riempito le lavagne dei “sacchiani”. Curioso che torni in auge a Barcellona, dove è nata la nuova filosofia globale, il “guardiolismo” dei mille emuli con poca fortuna. E su cui è inciso a fuoco il 4-3-3, già vangelo al Camp Nou con Cruyff e van Gaal, ma pure Rijkaard e Luis Enrique. L’ha rinnegato Ernesto, nato in un paese di 300 anime dell’Estrema- dura, Viandar de la Vera, e finito a guidare un club che conta 145mila soci.Lui, cresciuto nel Bilbao con l’etichetta di predestinato ma poi costretto all’esilio all’Olympiacos dopo aver sfiorato il Parma quando lo spagnolo Sanz avrebbe voluto comprare la società.
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