E’ sempre come cadere dal letto. E farsi male. La Roma va in Europa sognando, s’addormenta, si risveglia urlando. Non solo in Europa, peraltro. La rimontano anche in Italia e siccome ormai la gente lo sa nessuno si abbatte quando la vede scappare. La Roma può andare via come una lepre, ma qualsiasi tartaruga che abbia molto vissuto e molto camminato sa che l’avversaria prima o dopo si ferma. Basta continuare a mettere un piede davanti all’altro e qualcosa succederà. Perlomeno, si può sperare che succeda. Per gli altri è un atto di fede che sovente porta alla salvezza, per la Roma un male apparentemente oscuro. A dire il vero, questa impossibilità di essere normale da parte dei giallorossi, e dei giallorossi spallettiani in particolare, ammette una diagnosi. Basta abbandonare l’idea rassicurante che si tratti di sfortuna: crederci non sarebbe atto di fede bensì manifesta superstizione. Tattica, tecnica e mentalità al contrario sono concrete entità sportive e bastano a spiegare più o meno tutto ciò che di strano accade nelle partite. Bene, non proprio tutto. Ma almeno danno indicazioni su dove e come lavorare. Basta svegliarsi e smetterla di urlare.
TROPPI CAMBI IN DIFESA – La sfortuna può anche entrarci, ma è solo l’inizio. Ti prende i giocatori e li porta via a uno a uno. Del resto se decidi di impostare il mercato su Vermaelen, recuperato dal Belgio apposta per l’Europeo, accetti di correre qualche rischio. Preso atto della cosa bisogna trovare i rimedi e a quanto sembra quello peggiore di tutti è smazzare ogni volta una difesa nuova. Che non è una difesa fresca, semmai una difesa sempre nata ieri. Stanno lì a dimostrarlo 18 gol incassati in 13 partite ufficiali. Nelle 5 gare europee di questa stagione, compresi i play off di Champions League, Luciano Spalletti ha schierato solo due volte la stessa linea, contro Viktoria Plzen e Astra Giurgiu. Ulteriori rivolgimenti in campionato: quando la Roma è stata riacciuffata a Cagliari era partita con Peres a sinistra, tipica soluzione d’emergenza, e in corso di gara aveva aggiunto un centrale, Fazio, togliendo un attaccante, Perotti. Il centrocampo ha subito rimescolamenti ancora maggiori. Infatti stenta a filtrare quanto la difesa fatica a raccapezzarsi. La confusione sorge spontanea e viene da lontano: anche nell’ultima estate la Roma ha cambiato tre quarti dei titolari, come se una difesa fosse una festa in cui basta sedersi davanti a una birra per conoscersi bene.
NEI MOMENTI DIFFICILI IL CENTROCAMPO SOFFRE – Ora: se incassare due gol in tre minuti capita contro la Juventus o il Chelsea ti puoi incavolare ma devi aspettartelo. Se capita contro l’Austria Vienna allora è giusto restare svegli a interrogarsi sul senso della propria esistenza. Il divario tecnico tra le due squadre si vedeva a occhio nudo. Possiamo quantificarlo, se i numeri rassicurano: 56% di possesso palla per la Roma, 544 passaggi riusciti contro i 307 degli avversari. Qualcosa dev’essere accaduto, a parte la sostituzione di Florenzi con Emerson e quella di Iturbe con Dzeko, peraltro approvata dal pubblico. E’ accaduto, a occhio, che la Roma ha abbassato oltre la soglia della decenza i ritmi già letargici. Gli austriaci hanno continuato a correre, nei loro limiti, e si sono trovati senza neppure volerlo in fuga solitaria. Con Spalletti la Roma rispetto al pigro ultimo mezzo anno di Garcia aveva portato oltre i 100 la media dei chilometri percorsi a partita. In questa stagione con 104,508 è però al 14º posto della Serie A nella materia. Il Cagliari, che oltre a rimontarla l’ha a lungo sommersa, almeno è 10º con 105,953. Tutto questo aggrava le angosce di un centrocampo che non tiene palla sotto pressione ed è privo di qualcuno (Paredes, Gerson, avete nulla da obiettare?) capace di mettere insieme piedi delicati e saggezza.
L’APPROCCIO SBAGLIATO CONTAGIA ANCHE I NUOVI – D’accordo, Alisson ha tremato e sbagliato giovedì sera, ma i guai della Roma non sembrano risiedere là dietro. Là dentro, semmai, nello spazio vuoto che si spalanca nel petto di parecchi tra i giocatori. Eccezione ed eccellenza di Totti a parte, non sono poi moltissimi quelli che esibiscono ampia esperienza di calcio internazionale per club. Chi ne ha di più, tipo Fazio, finisce per sbagliare peggio degli altri. Secondo alcuni psicologi dello sport, non è immaginaria l’influenza della memoria storica delle società sul rendimento e sulla solidità interiore. Chi arriva in una squadra abituata a vincere si sente più sicuro e protetto, gioca duro e convinto ma senza avvertire il peso del mondo sulle spalle. Mentre alla Roma, che da anni cerca un proprio spazio in Italia e all’estero, la necessità di dimostrare sempre qualcosa si mescola a un’eccessiva sicurezza quando le cose sembrano andare bene o ci si aspetta filino lisce: necessario rifugio di quiete, calo di concentrazione, mancanza di furia che compensano una tensione eccessiva. Certo, da professionisti di primo piano (e anche di secondo) ci si aspetta che sappiano almeno imparare dai propri errori. Questi invece si ripetono ciclici, ossessivi, e non consentono alla Roma di uscire da un girotondo che riporta continuamente alla mediocrità.
(Corriere dello Sport – M. Evangelisti)
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