(Gazzetta dello Sport) La Roma è uscita per tanto così. Ha vinto 4-2, ma le serviva il 5-2 per raggiungere i supplementari. Il passaporto per la finale di Kiev contro il Real Madrid se l’è preso il Liverpool. È stata l’eliminazione dei rimpianti, di quel che poteva essere e di ciò che non sarà. La Roma ha pagato il maledetto primo tempo di Anfield, anzi lo scorcio in cui si è lasciata andare e si è spiaggiata sotto le ondate di Salah, Firmino e Mané, quei tre là davanti che nei Reds rappresentano l’alfa e l’omega, il principio e la fine. Tra quei tre e gli altri c’è un abisso e in franchezza non si capisce oggi come i «rossi» possano sfangarla col Real a fine maggio, anche se il calcio è folle e sovente gli sfavoritissimi si trasformano nei favoriti in corso d’opera. Roma generosa, ma un po’ frenata dal pensiero ricorrente che ogni gol subito avrebbe spostato più in là il limite dell’impossibile. Roma abbastanza derubata, al conto mancano il rigore per il clamoroso mani di Alexander-Arnold e la relativa espulsione del difensore, quando ci sarebbe stato ancora ossigeno per completare la scalata dell’Everest. Il penalty conclusivo, concesso allo scadere, non c’era e ha il sapore amarognolo della compensazione, del buffetto sulla guancia. Un senso di spreco si appiccicherà al ricordo di questa semifinale. Forse è destino che tra Roma e Liverpool vada in questo modo, specie all’Olimpico. La beffa ai rigori del 1984, la grande occasione perduta del 2018.



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