Bryan Cristante

AS ROMA NEWS CRISTANTE – E se fosse Bryan Cristante il vero fenomeno? Occhio agli eroi invisibili. A quelli dalla bocca cucita, che non parlano mai e le rare volte nessuno ci fa caso, perché non devono spaccare o stupire il mondo. Quelli che non esultano teatrali. Non esultano proprio, scrive La Gazzetta dello Sport.

Non scimmiottano telefonate a chissà chi e non cullano bebè veri o immaginari, non mostrano orecchie, nasi e bocche, non si atteggiano a statue, non recitano danze, trenini e ammucchiate. Non ammiccano ruffiani. Mai una polemica. Di strano ha solo quel volto un po’ lunare, piuttosto esotico, da esquimese e quel nome Bryan voluto dal padre mezzo canadese, quel volto che non si altera mai, non sai se invaso dalla timidezza o dalla serenità.

Un friulano tutto d’un pezzo, che friulano resta anche quando il destino lo fa giramondo. Nasce a San Vito al Tagliamento e cresce a Casarsa della Delizia, terra di poeti calciatori, Pier Paolo Pasolini ed Ezio Vendrame. E di radici forti. Dove i resti di Pier Paolo s’intrecciano a quelli della madre, all’ombra dello stesso alloro, la pianta dei poeti, le due tombe, la stessa tomba, il delirio botanico che diventa amore. A due passi dalla monocamera dove Ezio raccontava agli amici del suo talento buttato, di Leo Ferré, di Gigi Meroni e di George Best. Dell’incontro che lo mise al tappeto con Piero Ciampi, la sua maledizione, il suo trofeo.

Sì, è venuto il momento di dirlo. Bryan è un fenomeno. Ne sono passati alla Roma di fenomeni veri e presunti. Acclamati, evaporati. Di lui si dice e non si dice da sempre, come si fa con i secondi violini in un’orchestra. Bravo? Sì. Indispensabile? Forse. Sta di fatto che allenatori tanto diversi non ne fanno mai a meno. Di Francesco, Ranieri, Fonseca e Mourinho alla Roma, prima di loro Gasperini all’Atalanta, Ventura, Mancini e ora Spalletti in Nazionale. È lui il vero intoccabile di Mourinho. Il suo talismano, il suo mantello magico. Sta di fatto che, il giorno dell’addio a Trigoria, Daniele De Rossi lo cita a sorpresa: «Ne vorrei cento come Bryan. Non è romano, ma la sua anima romanista è grande».

Gioca sempre Bryan. Bendato, acciaccato, stremato, il braccio al collo o lo scafoide malandato. Sopporta ogni cosa. I fischi più ingenerosi della storia, quelli dei suoi tifosi, che ci hanno messo cinque anni per scoprire il loro eroe sommerso. Malesseri fisici e morali gli scivolano via, compenetrato nella sua missione come un samurai. In una squadra con il tasso d’infortuni tra i più alti del pianeta, lui c’è sempre. Nei due anni e mezzo del sovrano di Setubal avrà saltato una decina di partite, incluse le amichevoli. Nemmeno un raffreddore. Non salta mai un allenamento. Sempre in gruppo. In testa al gruppo. Raro esempio d’individuo a narcisismo zero.

Romanista a vita, il suo destino, Bryan Cristante di San Vito al Tagliamento, senza essere romano. Quanto di più lontano lui dall’esuberanza chiassosa dei nipotini di Trilussa, lui come Giacomino Losi da Soncino. Quando arriva a Roma, Bryan, è una delle rare cose buone di Attila Monchi, quello dei Pastore e degli Nzonzi, del Coric e dei Bianda. Bryan, prima di oggi fenomeno solo annunciato. Il predestinato che aveva perso le tracce del suo destino. Più giovane debuttante di sempre in Champions League nella storia del Milan, a 16 anni e 278 giorni, venduto al Benfica tre anni dopo per sei milioni. Bryan che si perde, ma non si perde mai davvero, tra Lisbona, Palermo e Pescara. Puoi bastonarlo quanto vuoi, lui resta intero. Fino a quando non si ritrova. Con Gasperini scopre che il pallone può diventare pazza gioia. Segna e fa segnare. Va ebbro negli spazi, ebbro ma sobrio, sempre lucido, padrone dell’essenza. Fa quello che va fatto.

Sa fare tutto, Bryan. Ambidestro, sul lungo e sul breve, il pensiero verticale, il lancio a fionda di prima intenzione, una premonizione, il tiro da fuori, il tackle deciso, forte anche di testa, e ora anche il lusso, il colpo di tacco, ma solo quando non è superfluo. Gli manca rapidità nella corsa, l’agilità nello stretto, ma gli basta e avanza il senso della posizione. A 28 anni, Bryan sa sempre dove stare e dove andare.

Lui è un semplificatore, la sua aureola è visibile solo agli sguardi più sofisticati. Calciatore enciclopedico, con Fonseca ha imparato a giocare centrale difensivo. Non gli piaceva, ma l’ha fatto. I soldati se ne fregano delle proprie fisime. Ha imparato a mettere il corpo nei contrasti. Si capisce che giocare da interno incursore lo estasia, ma i soldati non si affezionano alle proprie estasi. Da play tessitore risulta più invisibile, fioccano i sei in pagella, pigrizia dei “pagellanti”, ma lui non ci fa caso. I compagni lo adorano. Sarà anche timido nella vita di tutti giorni, ma in campo è un molosso, l’ultimo a piegarsi. E se, comunque, provi a fregargli il Rolex dal polso può succedere che lui ti ringhia e ti mette in fuga. È successo.



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