Luciano Spalletti, allenatore della Roma

Avete presente quei rubacuori che, volendo cambiare fidanzata, le dicono compunti: «Ti lascio perché non sono degno di te»? Ecco, Luciano Spalletti – dopo il 2009 – per la seconda volta lascia la Roma nonostante anche stavolta la dirigenza e una parte della tifoseria (l’unanimità non è di questo mondo) avrebbe desiderato la sua permanenza. Intendiamoci, percepiamo che l’affetto per la piazza sia sincero, ma da una conferenza che si preannunciava pirotecnica alla fine sono venute fuori solo verità confuse, con tre concetti importanti: non tutti hanno remato dalla stessa parte, non meritavo i fischi dell’Olimpico, non escludo un ritorno. Il tutto condito dall’ossessivo mantra intorno alla figura di Totti.

REMARE CONTRO – La generosa introduzione del d.s. Monchi, tra l’altro, ha fatto capire come Spalletti non avrebbe avuto alcun appunto da muovere alla società. Elogi a Pallotta, inviti a fare lo stadio, ammissione che è stato lui a gennaio a non volere acquisti («per difendere il carattere di un altro che già avevo, ho detto di lasciar stare così», no a Defrel per Dzeko, ndr). Così chi «remava contro» non si è capito bene, ammesso che non siano i soliti giornalisti. «Non sono riuscito a compattare la Roma – dice – ma ho lavorato in maniera profonda e seria. I risultati nel calcio sono tutto, purtroppo. Comunque lascio una squadra forte. Secondo me si poteva far meglio. Non abbiamo remato tutti dalla stessa parte».

CASO TOTTI – Molti pensano che l’allusione sia per Totti. Vero? Mah. «Secondo me errori non ne ho commessi. Ho detto delle cose forti quando necessitava, ma mi sono comportato sempre con coerenza. Qualcuno ha parlato di una guerra interna tra me e Totti che non esiste. Quei fischi di domenica mi hanno fatto male, non me li merito. Poi però si è voluto andare avanti con questa storia ed è chiaro che si crea una linea di demarcazione che potrebbe essere anche una difficoltà per la Roma futura, che io non voglio dargli. Io con Francesco rimarrò amico anche dopo. Al netto di qualche ventriloquo, c’è stima reciproca, anche nel prendere decisioni che sono dispiaciute prima di tutto a me. Posso essere un maledetto o uno schifoso, ma sono una persona perbene. Francesco lascia un vuoto incolmabile, ma l’esaltazione di un singolo elemento portata ai massimi livelli appiattisce gli altri. E quando io difendo gli altri, per voi questo è andare contro di lui, e non è così. Siccome non ci sono riuscito in un anno e mezzo, vuol dire che ho fallito nella cosa più importante. Comunque, se lui ha giocato poco e questa Roma ha fatto il record di punti, ci sarà anche un altro modo per arrivare alla vittoria. I fischi? Partono da lontano, e comunque anche se mi avessero applaudito non sarebbe cambiato niente. Qui avete un modo di dire: “Gli allenatori non li mandiamo via, se ne vanno da soli”. Perché c’è questo contorno. Io e Francesco diventeremo amicissimi, e chissà che lui non capisca come questo fatto dell’esaltazione assoluta diventa solo un “io”, mentre si perde di vista il “noi”. Comunque, se ero io il problema, vado via e a a questo punto spero che Francesco continui. Non sono stato io quello che l’ha fatto smettere. Lui ha smesso da solo, perché è l’età che gli impone di smettere. Anzi. secondo me l’ho fatto giocare un anno in più».

CIAO INTER – Sui titoli di coda il discorso vira sull’Inter. «Da qui in avanti comincio a parlare con quelli che mi vorranno, perché finora non l’ho mai fatto». Da Milano dicono altro e tanti tifosi, perfidamente, ricordano sui social l’incontro «segreto» con Abramovich nel 2008, sempre negato fino alla rivelazione di Ancelotti. Il finale però vorrebbe essere struggente. «C’è un cantautore romano importante, che sulla tomba ha fatto scrivere l’epitaffio: “Non escludo il ritorno”. Mi garba questa cosa qui». La frase era di Franco Califano, tifoso dell’Inter. Strana la vita, vero?

(Gazzetta dello Sport – M. Cecchini/D. Stoppini)



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