E’ una storia lunga, una strada contorta e costellata di bivi, rotonde e marce indietro. Volendo possiamo risalire alle dieci o venti volte che si è parlato di casa della Roma, oppure fermarci a quando venne presentato un modellino al quale imposero il nome di Stadio Franco Sensi. Non era affatto male e sarebbe stato benvenuto da tutti, anche perché ricordava un presidente benemerito a brevissimo tempo dalla scomparsa. Ma è meglio stare a questo stadio della Roma, peraltro ancora ben lontano dall’esserci, e alla vicenda della Roma degli americani. E’ già abbastanza complicato così.

CINQUE ANNI FA – Quasi esatti. Era agosto, i bostoniani si prendono la Roma e prima ancora di firmare il contratto cominciano a mettere lo stadio in cima ai loro pensieri. Perché per finanzieri e imprenditori di quel tipo una società che sia solo un nome e non possieda il proprio campo di lavoro non è un oggetto razionalmente definibile. Mentre da noi è normale. James Pallotta è ancora nascosto dietro spalle larghe come quelle di DiBenedetto ma sta già lavorando. Tanto da incaricare l’azienda immobiliare Cushman & Wakefield di valutare una serie di siti. Prima ancora che Pallotta venga a galla e diventi presidente della Roma, gli specialisti hanno chiuso la pratica e scelto Tor di Valle. Siamo a febbraio 2012. Contestualmente o giù di lì Luca Parnasi viene designato quale partner del progetto per la parte tecnica e operativa. Sarà lui a costruire lo stadio. Anche perché ha già in mano il terreno.

2013 – E’ l’anno in cui tutto sembra partire a forte velocità. A gennaio viene ingaggiato l’architetto statunitense Dan Meis, che nel giro di quattro mesi completa la prima stesura del progetto. Ispirandosi al Colosseo, agli stadi inglesi più moderni e alle strutture americane. James Pallotta conosce Ignazio Marino, eletto sindaco a giugno. Si piacciono. Fino a quel momento il presidente della Roma aveva parlato con Gianni Alemanno. Marino ha studiato e lavorato negli Stati Uniti, chiacchiera in slang e ha voglia di piantare qualcosa di duraturo in città. A dicembre i due si vedono, è una bella giornata d’inverno, si affacciano insieme dal Campidoglio e decidono di andare avanti.

2014 – Talmente avanti che a marzo il plastico è pronto e fa una bella impressione quando viene presentato al pubblico nelle sale del Comune. Ma la strada non è in discesa. I costi lievitano, le opere pubbliche richieste dalle varie parti politiche sono sempre più impegnative. Sta per saltare tutto quando Marino e l’assessore all’urbanistica Giovanni Caudo, a New York per altre questioni, vedono Pallotta. Sono bravi a non concedere nulla, ottengono più soldi per le opere pubbliche e in cambio s’impegnano a spingere per la delibera di pubblico interesse. Se ci sono trasporti e strade, argomentano, allora la cosa diventa un’opera utile alla città. Un altro ostacolo s’impenna di fronte allo stadio: Pallotta vuole mani libere sulla proprietà, il Comune impone che Roma e impianto siano indissolubilmente legati, almeno per trent’anni. Ad agosto siamo di nuovo sull’orlo della rottura, ma poi l’accordo arriva. Solo che l’Assemblea Capitolina, in tutt’altre faccende impegnata, non lo ratifica, l’orizzonte politico di Marino prende ad annebbiarsi e insomma si arriva fino a dicembre prima di avere il pubblico interesse.

2015 – Siamo già al limite dei tempi previsti. Ma non è finita, è appena cominciata. Adesso bisogna produrre il progetto definitivo che è complesso, paurosamente complesso. Bisogna raccontare anche quale tipo di bulloni occorrano per fissare questo pezzo a quell’altro. Ci lavorano sopra gli studi americano e inglese di Meis, le ditte che si aggiungono alla lista di soggetti interessati, viene meno una scadenza dopo l’altra. Passa la primavera, passa l’estate. Passa anche l’autunno. Il 15 giugno in verità viene consegnato al Comune un faldone corposo, per rispettare una sorta di ultimatum pronunciato dall’amministrazione. Lo guardano e dicono che non va bene: incompleto, lacunoso.

2016 – Arriva il nuovo anno e salta Mark Pannes, amico di Pallotta ma evidentemente non abbastanza. Era il responsabile del progetto, i ritardi e alcune stime troppo ottimistiche gli costano il ruolo. Al suo posto arriva David Ginsberg, altro finanziere ben considerato sui mercati statunitensi. Beh, qualcosa si muove. Il 29 aprile viene consegnato al Coni un incartamento chiamato progetto definitivo. Perché mai al Coni? Così, per cortesia. In realtà passa un altro mese prima che arrivi in Comune la versione completa. Che lì si ferma. Nel frattempo si è insediata Virginia Raggi, il Movimento 5 Stelle, da sempre critico in materia, sta lì ad annusare queste carte in cerca della falla. Oppure molto più semplicemente non sa che cosa fare, se sia meglio bloccare tutto oppure lasciare che se la sbrighino gli altri. A fine agosto finalmente le carte arrivano alla Regione senza la conferma del pubblico interesse. Non serve, dicono i 5 Stelle. Ma quando la Regione si appresta a varare la Conferenza dei Servizi, quella che poi decide davvero, bloccano ancora l’iter con un supplemento di documentazione. E’ successo appena ieri l’altro. L’ultimo livello della vicenda è lontano, la prima pietra anche.

(Corriere dello Sport – M. Evangelisti)



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