Agostino Di Bartolomei

AS ROMA NEWS DI BARTOLOMEI – Fateci caso. Era come se il suo viso assumesse sempre una posizione antalgica: Agostino Di Bartolomei doveva difendersi. Chissà da cosa. Forse da niente (che in certi casi vuol dire da tutto). Agostino si è tolto la vita il 30 maggio di trent’anni fa, a dieci anni esatti da quella finale di Coppa dei Campioni che “non si è mai giocata”, scrive La Repubblica.

Ancora oggi a Roma celebriamo la breve avventura umana e sportiva di questo ragazzo che non è mai diventato giovane: anche a venticinque anni pareva aver già vissuto esperienze devastanti. Assai di rado Agostino si abbandonava. Era così. Accigliato perché vivo, cupo perché importante. Ancora oggi, dicevamo, la città e il mondo giallorosso gli dedicano eventi, accanto al suo nome si organizzano partite, tornei, dietro i quali c’è sempre un pensiero spontaneo, una vibrazione appassionata, un senso di appartenenza fortissimo.

Come tanti calciatori nati negli anni Cinquanta ed esplosi negli anni Settanta, Agostino Di Bartolomei era “identitario”. Nella Roma di Liedholm era il compasso che univa (e misurava) difesa e centrocampo e quel suo modo di interpretare ilruolo di regista difensivo divenne in un attimo esemplare e in un attimo sparì dalla circolazione. Forse fu l’unico a giocare in quel modo: neppure Krol aveva le sue caratteristiche. Era sempre di poche parole, fra le quali “schivo” era quella che meglio lo definiva.

Nessuno ebbe la forza di interrogarlo sui tanti perché del suo essere, sui vuoti, su fama, soldi, solitudine e soprattutto sulle sue fragili speranze. La sua voce era un sibilo, i suoi sorrisi pezzi da collezione. Nella Roma trasognata di fine anni Settanta, a un passo dalla serie B e poi, di colpo, autorevole protagonista del campionato italiano, Agostino svolgeva una funzione catartica. Con i silenzi attirava la gente, cui sentiva di somigliare. Con la sua sola presenza, arricchita presto dalla fascia di capitano, indicava ai compagni di squadra la strada da percorrere in campo (perché in un campo di calcio c’è sempre una strada…).

Difficilmente Agostino sbagliava un passaggio, spesso segnava su punizione. E una volta prese le misure con la sua nuova posizione in campo, venti metri più indietro, anche le chiusure cominciarono ad avere un senso. Quando passò al Milan, quasi costretto dal precipitare degli eventi, salì in macchina con la certezza di aver fatto la scelta giusta, anche se per una volta la scelta giusta era anche la scelta sbagliata (anche perché non aveva scelto soltanto lui…). E quando segnò a San Siro contro la Roma si capì anche il motivo per cui Venditti gli dedicò “Tradimento e perdono”.

Incompreso, emarginato, ma a modo suo libero, libero di non essere uno da Nazionale, libero persino di togliere il disturbo. Aveva la parlata a singhiozzo e occhi troppo carichi di malinconia per essere un uomo attuale (del resto non era attuale nemmeno ai suoi tempi).

Continuiamo a chiederci se avremmo potuto fare qualcosa per salvarlo. Forse no. Agostino era il ragazzo con cui Liedholm andava per musei. Era il Busquets della sua epoca. Era il De Rossi di Tormarancia che avrebbe lasciato il calcio dopo aver riportato la Salernitana in serie B. Era il personaggio del primo dei “Nove racconti” di Salinger, perso nel suo giorno finale, un giorno ideale per i pesci banana.

Ma soprattutto era lo scrivano Bartleby, che più passa il tempo e più si barrica nel suo ufficio e a chi gli chiede qualcosa risponde: “Preferirei di no”. Ecco, quel giorno di trent’anni fa, senza avvertire nessuno, Agostino si è guardato intorno e ha detto: “Preferirei di no”.



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