«Il mio vantaggio è avere un gruppo di giocatori come Buffon, Barzagli, Bonucci, Chiellini e De Rossi. Quando entrano in campo è come se avvertissero gli altri: “Ci si allena così”. Io non devo dire niente, pensate un po’». Gian Piero Ventura sa da dove partire. Dal blocco Juve. «Perché a Torino nessuno ha mai preso in considerazione il secondo posto e a Vinovo non c’è il lusso, perché lì si lavora e basta». Ha iniziato il percorso verso Russia 2018 con i senatori di Antonio Conte per non sbandare alla prima curva. Adesso, però, la sua Italia è anche giovane, in controtendenza con i grandi club del nostro campionato (Milan escluso). «Molti giocatori dell’Europeo stanno incontrando varie difficoltà per diversi motivi. Pellè, centravanti dell’Europeo, è lontanissimo in Cina, il suo partner d’attacco Eder siede in panchina all’Inter», ricorda il ct. Cambiano gli interpreti e anche il sistema di gioco. La virata, appoggiandosi ancora sul gruppo storico, è verso il futuro.

La Nazionale si arricchisce: facce nuove e di prospettiva. Ma anche le società guadagnano grazie alla svolta azzurra. Scusi Ventura, si è accorto di aver fatto la prima plusvalenza da ct, con il trasferimento di Gagliardini dall’Atalanta all’Inter?
«Certo e non mi sono meravigliato. Non è una novità per me. Sarà felice Percassi. È bastata la convocazione per far diventare il centrocampista uomo mercato. Ma il merito è del ragazzo e del club. Non è l’unico. Ma io sono stato molto chiaro con i club quando chiesi gli stage».

Di sicuro è stato più diplomatico di Conte che, non essendo stato ascoltato, andò allo scontro. Come è riuscito a convincere subito i dirigenti del nostro calcio?
«Spiegando loro quello che avrei fatto. La convenienza c’è per le società e per gli stessi giocatori. Il valore dei singoli aumenta e anche l’esperienza. Io, tra l’altro, non li chiamo stage. Sono vere e proprie convocazioni. Devono capire che la maglia azzurra non è così pesante come pensano prima di arrivare. Entrano muti e timidi ed escono coinvolti e sorridenti. A Coverciano ne porto 22, due per ogni ruolo, e li valuto. In quei tre giorni e anche dopo».

Li continua a seguire anche quando tornano nei club?
«Si, ma non solo nelle prestazioni. Mi interessa vedere se cambiano atteggiamento o se considerano la chiamata come punto d’arrivo. Se accade, sono fuori. Le risposte, invece, sono state soddisfacenti. Stiamo continuando a seguire il primo gruppo di calciatori convocati ma anche le novità che emergono dal campionato, come ad esempio Chiesa e Spinazzola che si stanno ritagliando uno spazio sempre più importante in questo campionato. Avremo modo di vedere anche Berardi. A maggio farò una o due amichevoli: la teoria non è sufficiente, serve anche la pratica per essere certi che un giocatore è pronto per far parte del gruppo».

In Nazionale ha puntato sul ricambio generazionale, ma anche quando è stato allenatore di club ha puntato sempre sui giovani: quali sono le controindicazioni?
«Non basta aver pazienza. Bisogna mettere in preventivo che spesso la crescita ha delle pause. Belotti, ad esempio, non ne ha avute. I progressi sono stati costanti. Adesso, però, dobbiamo vedere come si comporta con la clausola di 100 milioni. È il primo esame importante sotto l’aspetto psicologico. Ancora non so come reagirà. Speriamo bene… Ma conosco il ragazzo e sono fiducioso che continuerà a lavorare per crescere ancora».

Chi vede in scia di Belotti per il ruolo di centravanti?
«Oltre a quelli che fanno già parte del gruppo, Petagna, ma deve migliorare la sua visione della porta. È l’attaccante moderno, l’ideale per l’allenatore e i compagni. Sa fare tutto, il suo problema è che pensa poco a se stesso».

L’Italia dei giovani rischia di essere però inesperta: solo gli juventini e Insigne, che in azzurro non è nemmeno titolare, fanno la Champions. I suoi colleghi di Germania e Spagna possono invece andare più sul sicuro. Come pensa di recuperare il terreno dalle big d’Europa?
«Fortunatamente comincio a sentire diversi presidenti dire che sono pronti a puntare più sugli italiani. I giovani sono di sicuro i più penalizzati: gli stage sono un’opportunità. Per avere almeno qualche vantaggio dal campionato la nostra serie A deve comunque essere più competitiva».

Crede che i suoi colleghi riescano a proteggere i giovani?
«Le critiche sono eccessive. Quelle della gente e dei media. Io ho seguito la partita persa dalla Juve al Franchi contro la Fiorentina. Ho subito ascoltato giudizi definitivi: finiti Buffon e il trio della BBC. Pensate se invece di stroncare loro, i titolari della prima in classifica e della Nazionale, l’accanimento è contro un ventunenne. Lo uccidono. Questa è l’Italia: bisogna imparare a convivere con la pressione mediatica».

Gli stage a Coverciano per i giovani, le partite ufficiali per i titolari: il suo lavoro pagherà anche se viaggia su due binari paralleli?
«Vedrete che presto la Nazionale sarà solo una. Io ho sfruttato i quaranta giorni di Conte all’Europeo per partire bene nelle qualificazioni mondiali: un pari con la Spagna e tre successi in trasferta. Solo una si qualificherà direttamente, e per noi sarebbe un’impresa. Ma se andiamo in Russia, anche passando dagli spareggi, saremo protagonisti. Io sono partito con il 3-5-2 di Conte, ma ho già usato il 3-4-3 e il mio 4-2-4 che nessuno utilizza, né in Italia né in Europa. L’ho scelto perché abbondano gli esterni e scarseggiano le mezzali. Non funziona solo contro la difesa a cinque e quindi in campo internazionale, dove tutti usano la linea a quattro, va benissimo. Io mi sento ancora allenatore, anche se tornerò in campo solo dopo 3 mesi. E per lo stage».

Sembra molto sicuro di sé, non ha qualche timore?
«Timori? Io sono eccitato. Come potrei non esserlo. Io adesso ho questi giocatori qui, ma da qui a due anni chi mi dice che non esplodano un’altra serie di giovani che magari saranno ancora più forti di questi? È tutta una scoperta e posso essere solo entusiasta».

Tornando alle plusvalenze, quale ricorda perché piovuta dal cielo?
«Quando prendemmo Zebina dal Cannes. Con Cellino andammo in Francia per seguire dal vivo un altro calciatore. Che io bocciai. Indicai invece il difensore. Il presidente, finita la partita, mi lasciò solo dentro lo stadio per un’ora. Solo in aereo mi disse che aveva acquistato il giocatore che mi era piaciuto, spendendo 800 milioni. Mi spaventai. L’avevo visto una volta. Dopo due anni finì alla Roma per 20 miliardi. Fatevi due conti…».

De Rossi è ancora un perno della Nazionale?
«È un calciatore importante. Ha capito che, per stare ad alti livelli, deve allenarsi bene».

Perché non può fare coppia con Verratti?
«E chi lo dice? Io penso che non possano stare l’uno accanto all’altro in un centrocampo a tre, mentre se si gioca a due sono perfetti e infatti li ho schierati in partite ufficiali».

Quanto le ha dato fastidio il paragone con Conte?
«A un certo punto ho detto basta. Non sopportavo più il pregiudizio. Che senso aveva mettere a confronto la sua sfida con la Spagna con la mia? Lui aveva la squadra da quaranta giorni, io da tre. Mi veniva rimproverato che ero e sono un ct senza aver vinto uno scudetto. Ma in Italia chi vince gli scudetti, al momento solo l’allenatore della Juventus, dove ormai Allegri fa il selezionatore. Sfido uno come Zidane ad allenare in Italia una squadra di medio-bassa classifica. Qui si finisce sempre in discorsi troppo semplicistici: senta questa».

Prego.
«Quando l’Atalanta ha inanellato un filotto di vittorie mi è stato chiesto giustamente il perché non giocassimo come loro. Ho dovuto spiegare che quelle vittorie erano figlie di un lungo lavoro in precampionato e delle esperienze vissute nella prima parte del campionato, tra l’altro con risultati non positivi. In Nazionale tutto quel tempo non c’è. Se avessi sbagliato con l’Italia le prime quattro partite la mia avventura in azzurro sarebbe già finita».

Il suo più grande rimpianto?
«O’Neill. Il più grande che ho allenato. Per me più forte anche di Veron. Me lo sono goduto, però, appena un anno. Aveva dei problemi e non c’è stato niente da fare. Sono riuscito ad avere il meglio da lui per un campionato solo. Comunque anche con l’argentino il Cagliari fece una plusvalenza, cedendolo alla Juventus e ricevendo 18 miliardi più il prestito di Ametrano».

(Il Messaggero – A. Angeloni/E. Bernardini/U. Trani)



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